Università e storia

quistelliantonio600di Antonio Quistelli* - Per realizzare una buona scuola occorrono ottimi insegnanti. Sarebbe un'affermazione banale quanto ovvia, ma non per questo meno vera, se l'accento non fosse sulla coerenza con gli scopi della scuola e sulla qualità del gran numero dei soggetti che v'insegnano. Quanto alla conta delle figure alte, che non determinano, spesso, gli ordinamenti, ma mettono in moto le idee, esse non sono mai molte. Di buoni insegnanti, nella nostra università e nelle scuole di Reggio Calabria, ve ne sono come ve ne sono altrove. Ugualmente, di buoni maestri non c'è ragione di aspettarsene un numero e una distribuzione che sia diversa da quella che, di norma, riscontriamo nelle altre realtà, in Italia e altrove. I referenti di una maturazione culturale e scientifica sono relativamente pochi. Ancora meno quelli che ogni generazione ricorda come maestri. Fin dalle prime esperienze, abbiamo appreso che non tutti quelli ai quali è affidato l'insegnamento hanno le singolari qualità del maestro. All'Università, ad esempio, aver raggiunto la titolarità di una cattedra, l'essere Professore, non è una garanzia di una distinta posizione nella comunità del sapere e nell'organizzazione della cultura. Spesso, uno di noi è in grado solo di illuminare un punto della conoscenza, in modo intenso e concentrato. Fuori da quella luce è il buio. E' facile avvicinare i maestri e avere la fortuna di accedere alla loro diretta esperienza? Oggi, questa possibilità è la conclusione di una faticosa ascesa lungo un cammino della conoscenza, dentro un'avventura sociale, che alla fine lascia molti indietro. Allora accade di essere ammessi nel gruppo ristretto dei primi allievi per via di una scelta di cui gli unici responsabili siamo noi. Il tempo nella scuola è lungo e duro, ed è destinato ad aumentare per necessità oggettive. Finita l'Università, uno studio di terzo livello, un Dottorato, una specializzazione, la formazione, poi, può procedere ancora. Oppure è la prima esperienza di lavoro a corrispondere a un tirocinio. Il ritardo nel trovare occupazione, una volta laureati, per la saturazione del mercato del lavoro, povero di ricambi o di creazione di nuovi posti, fa poi il resto. Attendendo un'offerta, o cercandola, si torna a scuola, spesso, ma con quanta possibilità di migliorare le proprie occasioni di successo non è dato dirlo. Questa è la situazione generale, io credo. Di particolare, nelle scuole d'Architettura, che cosa accade?

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Il livello dei più tra quelli che si accingono a studiare architettura non è soddisfacente. Non è tanto un problema di qualità della nostra Scuola Media e Superiore, quanto dello standard culturale che si riscontra nella nostra società. La parte debole della nostra popolazione, scolastica e non, manca di radici in termini di cultura, se con questo s'intende non solo il frutto di un training qualsiasi, interno a un percorso scolastico, ma anche la consapevolezza delle relazioni che, nel tempo e nello spazio, definiscono le nostre appartenenze storiche, qualificando il nostro interesse verso i processi che muovono le società. Il risultato finale è un popolo di studenti inadatti a un tipo d'addestramento in cui si apprende avanzando sulle proprie esperienze e crescendo attraverso le capacità di legarle con il maggior numero di relazioni scoperte anche entro di se. In sostanza, in questi giovani individui manca la capacità di connettere, soprattutto, la cultura materiale e la vita delle comunità. L'Università non è il luogo per riparare a queste, o altre, inattitudini. Non solo per i limiti interni di cui è portatrice. Bisogna accettare, come dato non ricusabile, che l'Università non può farsi carico di vuoti antecedenti, ed è costretta, quindi, a rimettere alla responsabilità d'ognuno la capacità di trarre profitto da ciò che essa mette a disposizione. Per contro, e questo è una mancanza nello stato delle cose, l'ordinamento universitario seziona ogni settore disciplinare parcellizzandolo in insegnamenti separati, la cui riunificazione in una sintesi organica non è affidata ad altri che allo studente, che insegue i tanti corsi frequentati. In Architettura, tuttavia, il momento del progetto dovrebbe essere la prova che la sintesi di ciò che si apprende separatamente è avvenuta. Il risultato delle inattitudini originarie, di una presenza non animata da responsabilità consapevole all'interno della scuola, dall'adagiarsi in scelte ambigue di percorsi didattici, favorendo le debolezze del sistema, e rifuggendo, per quanto è possibile, dalla scuola attiva della sperimentazione progettuale, produce l'effetto che solo il dieci per cento di quanti si laureano, hanno le qualità per occuparsi con dignità del lavoro al quale dovrebbe poter accedere. Di fronte a questo stato di cose, sul quale pure c'è un certo dibattito, poche sono le mosse giuste che si compiono. Più numerose sono le sbagliate: per difetto di valutazione, per corrività d'analisi, per distacco dalle responsabilità del nostro mestiere, per scetticismo di poter realizzare riforme di scrittura, per sostanziale disamore verso un'attività considerata, da non pochi, come secondaria, rispetto ad altre condotte parallelamente; per vigliaccheria, per opportunismo di carriera, che apre la strada ad atteggiamenti che sono, francamente, autoritari e celati da un velo di moralismo professionale. Cinicamente, il numero dei laureati, con possibilità reali di far bene il proprio mestiere, visto il mercato del lavoro, è sufficiente. Non vi sarebbe, in apparenza, nulla da ridire. L'intero processo che qui ho descritto, potrebbe essere giustificato come il risultato ovvio di un qualsiasi processo selettivo: l'accesso alla scuola non e stato negato a nessuno, rispettando i principi costituzionali del diritto allo studio, e le capacità d'ognuno, in fondo, regolano il processo di selezione. Non è tutto a posto? No, le cose non vanno. Questa percentuale esigua che può far bene, sul mercato del lavoro opera in maniera completamente confusa e disarmata. Molti non si fanno scrupolo di condividere le responsabilità riguardanti il degrado della nostra cultura materiale, con una committenza pubblica e privata ben lieta di usare tecnici ai quali essere scadenti, non offre nessun'altra possibilità, che essere solo disponibili per sopravvivere. Questi avranno la vita difficile e si disperderanno, vanificando gli sforzi di chi li ha preparati. Saranno, quindi, vittime di un cattivo sistema. A guardar bene, vittime sono anche gli altri, quelli non ammessi a far parte di questo gruppo fortunato, che sono illusi dal fatto che il compimento formale di un corso di studi li abbia resi maturi. Danneggiata, è la società, che ha diritto di riporre fiducia nella scuola come istituzione che provvede alla formazione e la certifica come avvenuta. Nessuno, in sostanza, ha avuto quello che doveva. A tutti è stato negato d'avere la miglior scuola adatta a ciascuno, e ai docenti è stato negato d'operare con precisione e successo. Allora, cosa si deve fare? Intervenire sul problema della scuola in modi tutti diversi da quelli prefigurati dai numeri chiusi o programmati, che proporzionano sì irapporti numerici tra docenti e allievi nell'ambito di un progetto didattico, ma a prezzo di un insostenibile diniego ai rifiutati d'accedere all'istruzione superiore.

In Architettura vi sono situazioni di potere ferme su modelli e su un'ideologia del sapere della disciplina, che appare una falsa immagine se confrontata con la realtà. Questo blocco è, spesso, vincente. Vi è tutta una rivoluzione nella didattica e nella ricerca da attuare per contrastare le inclinazioni di chi parteggia per utilizzare ogni forma di selezione come strumento didattico, educativo. Quelli che in una scuola autoritaria vedono la via della serietà degli studi. I costruttori di una scuola immaginata come una sorte di campo a ostacoli, fitta di sbarramenti e di fili spinati, il tutto per assicurarsi che il sopravvissuto sia idoneo e meritevole d'essere incoronato di lauro. Ai fautori di questa via, quella del numero chiuso e della corsa ad ostacoli, oppongo che non credo che sia lecito arrivare all'obiettivo di riscattare dall'insuccesso il nostro lavoro selezionando chi chiede un suo diritto: essere istruito. Ugualmente, non credo che sia lecito arrivare, ancora più tortuosamente, a quest'obiettivo, bocciando, espellendo traumaticamente lungo il cammino chi stenta ad avanzare. Penso ancora, credevo, credo - e l'ha insegnato Don Lorenzo Milani, spiegandolo una volta, e per tutte - che chi insegna e boccia, è se stesso che condanna con un giudizio negativo.

L'Università, al momento, sembra animata da persone deluse da se stesse, senza visione, senza speranze se non personali. Avevo creduto, a un certo momento della vita, che portare al Sud dei giovani docenti, dare una possibilità alla loro freschezza, fosse un'operazione giusta, pur riconoscendo alcuni limiti generazionali di questo capitale umano. M'illudevo che quella scelta fosse simile al tentativo della Principessa (l'occasione, in questo senso) di regalare un bacio al rospo, sotto le cui spoglie si nascondeva un Principe, per svelarlo. Il bacio ci fu, ma devo dire, a malincuore, che la magia non si è avverata e non per mancanza di generosità dei tempi, che non sono stati avari.

*Fondatore e primo rettore dell'Università Mediterranea

Nota del direttore

Uno degli aforismi più noti (e probabilmente più veri) di Gesualdo Bufalino è questo: "La mafia sarà vinta da un esercito di maestri elementari". In questa frase, breve, ma potente, c'è probabilmente tutta l'importanza della cultura e dell'educazione, soprattutto su territori difficili come quello che viviamo. Per questo, su input del prof. Isidoro Pennisi, pubblichiamo oggi uno scritto di Antonio Quistelli, fondatore e primo rettore dell'Università Mediterranea di Reggio Calabria, scomparso nel 2008. Questa scelta si inquadra nel percorso che abbiamo iniziato qualche giorno fa – proprio con una riflessione del prof. Pennisi – sulla figura di don Lorenzo Milani, nel cinquantennale della scomparsa. Don Milani come immagine di una formazione vista per un lungo periodo come eccentrica, ma che oggi, visti i tempi bui che viviamo sotto il profilo culturale (ma non solo) si rivela per tutta la sua efficacia. Un percorso, quello che Il Dispaccio ha deciso di intraprendere grazie al prof. Pennisi, che avrà ancora un'ulteriore tappa, nei prossimi giorni, con un altro scritto del prof. Quistelli, e che culminerà, infine, con un incontro pubblico che terremo a Reggio Calabria e di cui a breve avrete notizia.

Ma andiamo con ordine.

In tempi non sospetti, il prof. Quistelli traccia un quadro dell'Università italiana che è ancora oggi attualissimo. Anche nelle nostre realtà. Un'università che non deve – non può – essere un monolite, un edificio, un blocco di cemento incastonato in maniera più o meno armonica all'interno delle città. Invece, sempre più spesso, le università rivestono il ruolo di "esamificio", luoghi in cui mettere quasi sotto accusa gli studenti, senza prepararli effettivamente alle sfide che, di lì a poco, dovranno affrontare o "saranno costretti" ad affrontare, senza essere – per usare un'espressione banale – una "scuola di vita". Semmai, diventa "scuola di vita" distorta, nel senso che spesso "insegna" che per andare avanti, per ottenere risultati non serva lo studio, la preparazione, il sudore, ma accodarsi alla carovana giusta o salire sul carro giusto.

Quistelli lo scriveva ormai tanti anni fa: "Il risultato finale è un popolo di studenti inadatti a un tipo d'addestramento in cui si apprende avanzando sulle proprie esperienze e crescendo attraverso le capacità di legarle con il maggior numero di relazioni scoperte anche entro di se. In sostanza, in questi giovani individui manca la capacità di connettere, soprattutto, la cultura materiale e la vita delle comunità" afferma nello scritto che vi proponiamo. E, invece, le Università (ma, ancor prima, le scuole) dovrebbero abituare al pensiero, a mettere in discussione tutto, in primis i docenti. Un'università di Giurisprudenza dovrebbe svolgere un ruolo attivo per l'affermarsi dei diritti; un'università di Architettura dovrebbe educare alla progettualità, ma anche al bello e all'ordine; un'università di Agraria dovrebbe educare al rispetto della terra che, invece, viene costantemente violata, anche da logiche di natura criminale.

Invece – e torniamo a Bufalino – spesso e volentieri l'università è lo specchio della società che viviamo. Una società in cui il sotterfugio è l'arma principale, in cui quasi mai prevale il merito. E, in qualsiasi momento, laddove non prevale il merito, ebbene, quello è il primo gradino della cultura mafiosa.