Totò Musolino, ammazzato 17 anni fa: tante domande, nessuna risposta

musolinototodi Giuseppe Trimarchi - Non posso non tornare a parlare di Totò Musolino. Non posso non farlo a 17 anni dalla sua uccisione. Non posso non farlo per l'ignobile e meschino silenzio che ruota intorno a tutta questa storia. Intorno a tutta questa buia, taciuta e miserabile storia di Calabria iniziata drammaticamente il 31 ottobre del 1999.

Erano circa le nove di sera a Benestare. Totò si trovava all'interno del suo frantoio, quando una raffica di piombo esplosa con una lupara a distanza ravvicinata da un vigliacco senza onore "tozzo, testa grossa e squadrata, di carnagione scura e brutto come un diavolo" a bordo di una Fiat Uno di colore grigio, guidata da un complice, lo centrò al fianco. Per Totò, imprenditore di 54 anni, titolare di un'impresa di costruzione con la schiena dritta, non ci fu nulla da fare.

Di quei pezzi di merda che spararono e dei loro mandanti non si seppe più nulla. Morto ammazzato e senza giustizia nonostante siano passati 17 anni. Morto ammazzato e senza giustizia nonostante, quattro anni fa, ad un anno esatto dall'accorato appello del fratello Domenico che ebbi l'onore di raccogliere e pubblicare, il sostituto procuratore di Locri, Rosanna Sgueglia, riaprì le indagini al fine di eseguire ulteriori accertamenti e verifiche nei confronti dei tre ex indagati: Francesco Ietto di Natile, Domenico Strangio di San Luca e Francesco Perre di Platì.

Come ebbi modo di scrivere quando appresi la notizia, "troppe le circostanze "anomale" ancora da chiarire. A partire da quanto avvenne la sera dell'agguato. «Era domenica – ricorda Domenico Musolino – e a Benestare tutti si erano accorti di una Fiat Uno con a bordo due individui con il volto seminascosto da cappelli con lunga visiera. Una presenza sospetta segnalata alle forze dell'ordine già intorno alle 17.00. Pochi secondi dopo l'assassinio, spostandosi ad alta velocità dal centro cittadino verso il cimitero, l'auto – ribadisce ancora il fratello di Totò - ha incrociato una volante della Polizia che incredibilmente ha fatto sfilare via i killer, nonostante i colpi di fucile, le segnalazioni, il diritto di precedenza in un tratto a senso unico alternato, la velocità con cui procedeva la vettura e il passamontagna indossato dagli occupanti. La Fiat Uno sparirà, imboccando la strada verso il cimitero. Gli agenti, invece, sarebbero andati a cercarla, alcuni minuti dopo e nella direzione opposta»".

Oggi, nulla è ancora cambiato. Nessuna verità. Nessuna giustizia. Nessuna attenzione mediatica al caso. Solo la battaglia di un fratello orfano di fratello che non si stanca di pretendere Giustizia e Libertà, perché, come dice lui «l'uomo per essere libero ha bisogno, costantemente, di inseguire e difendere la Giustizia. E per far ciò deve reagire a tutte le avversità rimboccandosi le maniche. Sempre. Senza tentennamenti. Pena la perdita della libertà e del futuro».

È arrabbiato Domenico. È furioso e non può, ancora una volta, non rammentare «la sensazione di incompetenza, di sciatteria, di mediocrità manifestata dai rappresentanti delle Istituzioni. Allora –– prosegue Musolino – speravo fossero reazioni dovute alle peculiari circostanze, affettività, condizioni. Mi dicevo "vedrai, sapranno venirne a capo del delitto". Ora, dopo 17 anni, dopo una serie di proteste orali e scritte rivolte al Potere Esecutivo Centrale e al Potere Giudiziario Superiore, non posso che affermare la presenza, da allora ad ora, senza soluzione di continuità, di squallore, di incompetenza, di mediocrità, quando non di colpa (O dolo?). E, a vedere i risultati raggiunti nel contesto giudiziario, posso affermare che non c'è nessuna novità. Con buona pace di coloro a cui sta bene questo "status quo"».

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Rabbia, delusione e frustrazione combattiva che aumentano e annientano anche a causa di una stampa che, subito dopo il delitto, ha trattato il caso in modo distratto e superficiale: «il vero giornalista – sottolinea Domenico – è colui che pone domande a tutti, cerca riscontri, chiede notizie alle persone presenti e/o a conoscenza dei fatti. Quella sera centinaia di persone legate alla Confraternita del Rosario erano presenti in Piazza Chiesa Matrice, a pochi passi dal luogo del delitto. Per il giorno dopo erano previste le elezioni per il rinnovo delle cariche della Confraternita e i capannelli dei confratelli, degli opposti schieramenti confabulavano in piazza. Costoro non possono non aver visto una macchina, non del paese, guidata da persona sconosciuta (?) con un passeggero che per 4 volte passava davanti alla Chiesa. Ripeto, pur comprendendo lo stato di paura che può averle colpite, ma tutte queste persone non possono non aver visto i due killer che per tante volte sono andati avanti e indietro con la Fiat Uno grigia rubata alcuni giorni prima davanti alla Stazione ferroviaria di Bianco.

È pur vero che né la Polizia Giudiziaria né la Procura di Locri si sono preoccupati di individuare ed interrogare i "confratelli", ma questo non vuol dire che non possano farlo i giornalisti. Anche loro avrebbero potuto sapere di "uno, brutto come la malannata, scuro di carnagione, tozzo, tarchiato". Chiunque, tra coloro che si trovavano in Piazza Matrice o lungo le vie percorse dalle 17.00 alle 21.00 dai killer, in qualsiasi momento, può rivolgersi a me per parlarne, anche in modo riservatissimo».

"Per parlarne": ecco, è questo un altro assunto fondamentale dell'intera vicenda. La parola in opposizione al silenzio e all'omertà, che regna e impera in tutta la Calabria. La Parola intesa non come rottura di scatole o disturbo del vivere quieto ma come mezzo per provare a «trovare una soluzione ad un problema, ad una epidemia – continua ancora Domenico – che attacca il vivere civile e democratico di una comunità. Specialmente quando chi è preposto alla lotta ai mafiosi non fa il proprio dovere. Come nel caso specifico. Purtroppo, oggi, dopo 17 anni, "nulla di nuovo sul fronte occidentale"».

Un fronte, dove alla fine, ogni cosa, è mescolanza. «Dove i vincitori (mafiosi) ed i vinti (cittadini e vittime) vivono mischiati – prosegue Musolino - in una perenne tragedia. Come se fosse di comune condivisione la gioia del delinquente mafioso vincitore e la tristezza del cittadino vinto. La forza ha il dominio dei luoghi, dell'apparire, ma riduce coloro che la esercitano in "cose morte"».

Un fronte dove la mescolanza porta a porsi numerose domande. A partire da una molto semplice: «esiste – chiede Domenico – un nesso tra mafia ed istituzioni nella Locride?». E soprattutto «perché – continua – le istituzioni hanno omesso di fornire risposte alle varie domande presentate?».

E allora, a 17 anni dall'omicidio di una persona perbene della Locride che ebbe il coraggio di rifiutare il pizzo e il puzzo mafioso, forse è giunto il momento di riproporre, pubblicamente non solo quelle domande, ma anche delle altre: «Perché – domanda ancora Domenico – il fascicolo è rimasto di competenza della Procura di Locri e non è stato trasmesso alla Dda di Reggio nonostante le chiare modalità mafiose dell'omicidio e l'appartenenza dei tre indagati a contesti criminali 'ndranghetisti? Com'è stata possibile la sparizione dal Tribunale di Locri di alcuni importanti reperti sequestrati dai carabinieri, come il cappellino con visiera indossato da uno degli assassini e il telo da spiaggia utilizzato per occultare il fucile? Come mai le forze dell'ordine non hanno controllato/bloccato le poche strade convergenti nel paese e le zone circostanti, dove a poche decine di metri dal Cimitero, qualche giorno dopo verrà ritrovata l'auto dei killer?

Tutte le responsabilità dirette o indirette devono emergere alla luce del sole oppure no? Chi ha interesse a far calare il silenzio sul caso?».

La speranza dei giusti di Calabria è che stavolta qualche risposta arrivi.