Condanne definitive sui Lo Giudice: le motivazioni della Cassazione

logiudiceluciano 500di Claudio Cordova - I giudici della Corte di Cassazione hanno depositato le motivazioni con cui, nell'ottobre 2018, hanno reso definitive le condanne emesse dalla Corte d'appello di Reggio Calabria sulla cosca Lo Giudice, la famiglia di 'ndrangheta considerata "amica" delle Istituzioni. La Suprema Corte, infatti, ha rigettato i ricorsi di tutti gli imputati, rendendo definitive le condanne emesse in secondo grado, dove era stato assolto il solo Antonino Spanò, titolare di una rimessa di imbarcazioni in riva allo Stretto.

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Nel 2016, la Corte d'appello aveva confermato la responsabilità penale degli altri imputati, operando riduzioni di pena, a cominciare dal personaggio principale, Luciano Lo Giudice, considerato la mente imprenditoriale dell'omonima cosca di 'ndrangheta. Lo Giudice passò da una condanna a 20 anni in primo grado, comminata dal Tribunale presieduto da Silvia Capone, a una più mite di 13 anni e 9 mesi. Condannato a 12 anni e 4 mesi Antonio Cortese, ritenuto l'armiere del clan (18 anni in primo grado), 12 anni e 8 mesi ciascuno anche per due soggetti assai influenti all'interno della famiglia, Giuseppe Reliquato e Bruno Stilo (18 anni ciascuno in primo grado). Nove anni ciascuno, poi, per Fortunato e Salvatore Pennestrì (in primo grado condannati rispettivamente a 10 e 13 anni). "Sconti" anche per Giuseppe Lo Giudice, 3 anni e 8 mesi la condanna (7 anni in primo grado), Giuseppe Cricrì, 4 anni (riduzione di sei mesi rispetto al primo grado). Infine, 10 anni sono stati comminati per il Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi (14 anni e 6 mesi in primo grado), punito per i suoi rapporti proprio con Luciano Lo Giudice.

Supera dunque anche l'ultimo scoglio il delicato procedimento portato avanti, in solitudine dall'allora pm antimafia di Reggio Calabria, Beatrice Ronchi.

Un procedimento che ha portato alla ribalta la figura di Luciano Lo Giudice, figlio del boss Peppe Lo Giudice, ucciso nel Lazio all'inizio degli anni '90, e fratello del controverso collaboratore Antonino Lo Giudice. Nel procedimento sarebbero inoltre emersi i collegamenti istituzionali tra Luciano e i giudici Alberto Cisterna e Francesco Mollace: intercettazioni telefoniche e ambientali, in cui Luciano farà riferimento al famigerato "avvocato di Roma" (Cisterna) e allo "Zio Ciccio" (Mollace). Saranno loro - secondo la Procura - i magistrati "amici" del clan, su cui Luciano avrebbe fatto affidamento nei momenti difficili. Secondo la magistratura, Luciano Lo Giudice, dunque, avrebbe ottenuto l'impunità grazie alle proprie amicizie pesanti e grazie al proprio ruolo di confidente. Un ruolo che si sarebbe protratto ben oltre i contatti del 2004 con i Servizi Segreti. Il pm Ronchi, infatti, documenterà il ruolo del clan Lo Giudice anche nel periodo della ricerca del superlatitante Pasquale Condello. "Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, infatti, nella sentenza di assoluzione di un magistrato in forza alla Procura di Reggio Calabria aveva parlato di scelte investigative opinabili, di legittimi sospetti ed aveva adottato la decisione liberatoria solo in considerazione della contraddittorietà e l'insufficienza del quadro probatorio" scrive la Corte di Cassazione. I magistrati individuati subiranno infatti dei procedimenti penali e disciplinari, superati con risultati altalenanti. Nel decreto di archiviazione del procedimento a carico di un magistrato della Procura di Roma si giungeva a rilevare "più che un sospetto sul tenore e sulla tipologia dell'interessamento svolto dall'indagato in merito alla vicenda in esame".

Nelle motivazioni della sentenza definitiva, i giudici sottolineano la coerenza del racconto dei vari collaboratori di giustizia ascoltati nel processo. Da Roberto Moio della cosca Tegano fino ai soggetti interni al clan Lo Giudice come Consolato Villani e l'ex capoclan Nino Lo Giudice. Anche attraverso le loro dichiarazioni, si arriverà a delineare il ruolo di un altro personaggio chiave, il capitano dei carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, condannato per corruzione aggravata dalle modalità mafiose. Scrivono i giudici della Corte di Cassazione: "Consolato Villani aveva, infatti, riferito di avere visto "decine e decine di volte" l'imputato, capitano dei carabinieri (e, quindi, persona che nell'ambiente malavitoso non poteva certo passare inosservato), nella cornetteria Peccati di Gola in compagnia di Luciano Lo Giudice, ma anche di Antonino Lo Giudice, trattenendosi, così, con soggetti la cui caratura criminale non era certo ignorata dal prevenuto. E tali incontri non avevano affatto lo scopo di consentire ai Lo Giudice di fornire notizie confidenziali al capitano ma avevano invece lo scopo inverso, posto che era l'imputato a fornire ai Lo Giudice tutte quelle notizie che, apprese nel compimento della sua attività d'ufficio, potessero tornare utili al clan. Tanto che lo stesso Vilani, preoccupato per avere ricevuto un invito a comparire, tramite Antonino Lo Giudice, aveva ricevuto dallo Spadaro, che si era nel frattempo interessato alla sua posizione, la rassicurazione che non avrebbe avuto nulla da temere". Lo stesso Villani, poi, ricorda come i fratelli Lo Giudice fossero costantemente informati dal capitano sulle strategie investigative delle forze dell'ordine e sulle operazioni di polizia in preparazione, che riguardassero il loro clan, ma che fossero rivolte anche contro gli altri sodalizi. Tanto da far affermare al Villani: "ci salvaguardava dallo Stato, era il colmo!". Dal processo, dunque, emergerà un clan, quello dei Lo Giudice, che per anni non sarà attenzionato dagli inquirenti e che, quindi, riuscirà a metter su un impero, grazie alle capacità di Luciano Lo Giudice: tra le attività riconducibili al fratello del "Nano", il bar-cornetteria "Peccati di Gola", nei pressi della stazione ferroviaria. Una potenza che – secondo la Dda – il clan avrebbe costruito grazie alle connivenze istituzionali con i magistrati, ma anche con il Capitano dei Carabinieri, Saverio Spadaro Tracuzzi, che avrebbe avuto un rapporto continuativo con Luciano, fatto di favori e rivelazioni reciproche. Ancora dalle parole della Cassazione: "E proprio tale asservimento, dello Spadaro Tracuzzi al clan Lo Giudice, si era realizzato con le condotte già descritte di continua rivelazione di informazioni riservate, un asservimento che aveva avuto la sua contropartita economica nella messa a disposizione dell'imputato, da parte dei Lo Giudice, di auto di lusso, di regalie varie, del pagamento di numerosi viaggi per sé e per i suoi familiari. Ritorni economici, di non modico valore, che, a loro volta, dimostravano la rilevanza dell'attività informativa svolta dallo Spadaro a loro vantaggio".

Una cosca "amica" delle Istituzioni, ma anche dedita, grazie alle capacità di Luciano Lo Giudice, al guadagno: "Le attività commerciali poi erano gestite da alcuni dei componenti del gruppo ma anche, e più spesso, da prestanome ed erano parte integrante ed essenziale dell'attività delinquenziale della cosca sia perché si avvalevano, come detto, della sua forza di intimidazione, sia perché consentivano di ricavare i profitti che ne consentivano la sua stessa esistenza. E che certo non erano ascrivibili al solo Luciano Lo Giudice (o ai suoi fratelli), come in molti ricorsi si afferma, sia in considerazione di quanto si è appena ricordato, sia tenendo presente quanto riferito da Antonio Lo Giudice, di essere immediatamente subentrato, quale referente del gruppo, nella attività economiche gestite dal fratello Luciano, evidentemente per conto del sodalizio stesso, quando questi era stato tratto in arresto".